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di Guido Tabellini

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24 giugno 2009

Il dibattito sulle «Lezioni per il Futuro», aperto sul Sole 24 Ore con il mio articolo del 7 maggio, ha ospitato interventi di grande rilievo e offerto numerosi e importanti spunti di riflessione. Il dibattito è stato troppo ricco di contenuti per poterlo riassumere o per commentare tutte le questioni sollevate. Senza alcuna pretesa di completezza, vorrei tuttavia riprendere alcune delle idee che sono emerse.

La crisi e le dottrine economiche
Non c'è alcun dubbio che la crisi in corso sarà ricordata come un evento d'importanza storica, paragonabile alla Grande Depressione del '29 e alla spirale inflazionistica che è seguita al crollo di Bretton Woods e al primo shock petrolifero negli anni 70. Entrambi quegli eventi hanno avuto un profondo impatto, non solo sulla realtà economica e politica, ma anche sul mondo delle idee.
La Grande Depressione ha portato alla rivoluzione keynesiana e ha trasformato il modo di pensare su ruolo e obiettivi della politica economica e sui confini tra stato e mercato. L'inflazione degli anni 70 è stata seguita dalla controrivoluzione monetarista guidata dalle idee di Milton Friedman. E questa volta? Vi sarà un'altra rivoluzione nelle idee degli economisti circa i compiti della politica economica e il funzionamento di un'economia di mercato?
Io penso di no. Le lezioni da trarre, per quanto importanti, sono più circoscritte. Riguardano principalmente il funzionamento di alcuni aspetti dei mercati finanziari, e in particolare la gestione del rischio, e l'assetto della regolamentazione finanziaria. Ma non vi sarà una revisione sostanziale degli obiettivi di politica economica, né dei concetti fondamentali di come funziona un'economia di mercato.
Chi afferma il contrario in genere pensa che la crisi abbia minato il cosiddetto principio della capacità di autoregolamentazione dei mercati finanziari. Ma questa affermazione rivela una conoscenza superficiale della moderna teoria economica. Come ha ricordato Roberto Perotti (Il Sole 24 Ore del 27 maggio), la fiducia nella capacità di autoregolamentazione dei mercati finanziari appartiene all'ideologia politica, non alla dottrina economica.
È da trent'anni che gli economisti studiano i fallimenti dei mercati finanziari, le bolle speculative, le asimmetrie informative che distorcono gli incentivi dei manager e degli intermediari finanziari, le crisi di liquidità. Le lezioni da trarre riguardano l'impostazione e i contenuti della regolamentazione finanziaria, non la sua necessità. Prova ne è che la crisi ha travolto soprattutto le banche, il settore più regolamentato di tutti.

La nuova regolamentazione finanziaria
In questi giorni cominciano a prendere forma le prime proposte di come ridisegnare la regolamentazione finanziaria. Il piano più dettagliato, appena presentato da Barack Obama, si basa su tre lezioni tratte dalla crisi. Primo, l'assetto di regole esistenti si concentrava sulla stabilità delle singole istituzioni finanziarie, trascurando il rischio sistemico.
Per rimediare a questo problema, Obama ha proposto d'istituire un nuovo organo di coordinamento
tra le diverse agenzie di regolamentazione, e di dare alla Federal Reserve un ampio mandato di supervisione e regolamentazione su tutte le istituzioni finanziarie sufficientemente grandi e interconnesse da poter influire sul rischio sistemico (e non solo le banche) prevedendo la possibilità di variare discrezionalmente i requisiti patrimoniali e di liquidità anche in funzione anti-ciclica. È anche prevista una regolamentazione assai più stringente dei mercati dei derivati e dei sistemi di pagamento.
Secondo, la gestione della crisi ha evidenziato le difficoltà nel contenere le conseguenze di fallimenti di istituzioni come Lehman, Bear Stearns o Aig, con implicazioni sistemiche. Per questo l'amministrazione propone un meccanismo di risoluzione delle crisi di grandi istituzioni finanziarie, che concede alle autorità poteri straordinari per difendere la stabilità sistemica, anche a scapito degli interessi di azionisti o di particolari classi di creditori.
Terzo, la crisi ha messo in luce i conflitti d'interesse associati alle agenzie di rating e alle innovazioni finanziarie basate sulle asset backed securities, che separavano le attività d'erogazione dei prestiti dalle decisioni d'investimento finanziario. Per ovviare a questi problemi, l'amministrazione chiede che chi eroga il prestito sia costretto a tenerne in portafoglio una quota (per altro molto piccola, solo il 5%), impone maggiori requisiti di trasparenza e riduce la rilevanza delle agenzie di rating.
Si può dissentire nel merito dei singoli provvedimenti. In particolare, è un peccato che il Presidente Obama si sia lasciato scappare questa occasione per semplificare l'assetto complessivo che attualmente prevede un numero eccessivo d'autorità di supervisione e regolamentazione. E forse non si sentiva il bisogno di aggiungere anche una nuova agenzia con il compito di proteggere i consumatori contro pratiche predatorie nella concessioni dei prestiti. Al contrario, il vincolo di tenere in portafoglio almeno il 5% dei prestiti erogati sembra troppo blando per incidere davvero sugli incentivi distorti degli intermediari. Ma non c'è dubbio che si tratti di un progetto ambizioso e in linea con i principali insegnamenti che è possibile trarre dalla crisi. Speriamo ora che il Congresso e le lobby della finanza non ne stravolgano o indeboliscano i contenuti.
  CONTINUA ...»

24 giugno 2009
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